
È stato più difficile di quanto pensassi riuscire a prendere in mano questa penna e il diario per scrivere dei miei giorni in Abruzzo, a l’Aquila, tra le sue città e frazioni. Dovevo mettere in fila i pensieri, definire le emozioni e guardarle da fuori.
Sono stati giorni intensi, pieni, saturi di sensazioni, di momenti, di persone e incontri. Il tempo procedeva con la sua consueta cadenza ma per me era raddoppiato, triplicato e forse molto di più. Sono tornata a casa e credevo fosse passato un mese.
Sono stati giorni colmi di momenti, momenti spensierati come le due serate di festa a Pianola e Coppito.
Nel Campo di Pianola siamo stati letteralmente buttati in questa festa organizzata da uno strano personaggio, Filippo (strano sì, ma senza di lui quella festa non sarebbe stata possibile!), che è riuscito a mettere insieme Clown Dottori, scout, volontari e personaggi folkloristici del paese. Devo ammettere che la serata ha raggiunto momenti di un trash da far invidia al Bagaglino, ma è indescrivibile l’aria che si respirava al termine della serata. Le persone del campo finalmente avevano trovato un momento per condividere, senza parlarsi direttamente, un momento di forte unione e vicinanza. Avevano bisogno di tenersi per mano, di sentire il calore delle persone per sentirsi meno soli. E così è stato.
Il giorno dopo al campo si parlava della serata, alcuni col sorriso sulle labbra, altri un po’ contrariati. Antonietta, che andiamo a trovare in tenda tutti i giorni (è un po’ brontolona ma basta poco per farle uscire un sorrisetto che spesso ci vuole nascondere!), ci accoglie dicendo che serate come quella non si devono fare, sono solo momenti futili, non si può far festa quando si è tutti disperati. Poi parlando un po’ seduti con lei sul letto abbiamo scoperto che conosceva con esattezza tutti i momenti della festa. Non so come facesse a saperlo, non ho voluto infierire, forse se ne stava nascosta in fondo al tendone, o forse, come preferisco immaginarla, con l’orecchio teso fuori dalla tenda fantasticando su quello che stava accadendo dentro. Momenti come questi servono anche per chi decide di non parteciparvi, perché i benefici si sentono nell’aria, si sentono in tutto il campo, negli sguardi complici tra le persone,nei gesti affettuosi. Devo dire che noi siamo stati anche aiutati dal sole del giorno dopo...
Al Campo di Coppito la festa è stata domenica sera, l’ultima del nostro turno. Il campo è stato invaso da un altro Campo, quello di Palobaia di Sassa. Sono arrivati tutti gli abitanti del campo ad accompagnare il gruppo di Organettisti del paese, grandi e piccini, giovani e meno giovani, tutti a suonare canzoni popolari abruzzesi dentro la Tenda “comune” di Coppito. E pensare che era la prima volta che si esibivano insieme in pubblico! È stato magico veder ballare i vecchietti del campo, che per l’occasione erano rimasti invece che ritirarsi presto nelle tende come solitamente accade, vedere i clown dottori improvvisarsi ballerini coi bimbetti e scatenarsi in danze ridicole prendendo chissà dove le energie che a quell’ora si pensava fossero già esaurite. Ma le energie e la forza si prendono proprio da questi momenti.
Ma ci sono stati anche momenti meno allegri come il 25 aprile, a Coppito tutti gli abitanti sono stati davanti alla propria porta di casa ad aspettare il verdetto degli ingegneri che avrebbero detto loro se la casa sarebbe stata agibile o no. In molti, tanti, forse tutti, già sapevano in cuor loro la risposta ma hanno aspettato, dal mattino alla sera, senza mangiare, senza allontanarsi per paura di perdere il turno. E la sera del 25 aprile a Coppito c’era un gran silenzio. Un silenzio fatto di sguardi durante la cena, di scambi di quelle poche parole di conforto necessarie, ma anche di occhi bassi e di rabbia.
Oppure respirare l’aria pesante e tagliente del campo dopo che si sono scoperti i primi furti nel magazzino degli alimenti, avere un po’ paura ad andare al bagno di notte perché giravano delle specie di ronde con tanto di bastoni e roncole.
Ripensandoci una delle prove più difficili, e al tempo stesso più intense, è stata quella di vivere dentro al Campo, di condividere ogni momento della giornata, i pasti, le docce, il risveglio. Perché anche se non ero più la Dottoressa Petronilla, anche se ero senza trucco e abiti, ero sempre e comunque il clown dottore, e il lavoro non finiva mai.
Il ruolo del Clown Dottore all’interno di una missione, nello specifico questa in Abruzzo, è proprio questo: nei campi che visitavamo i volontari, dalla Protezione Civile, agli Scout, agli psicologi si rivolgevano a noi per avere consigli, per risolvere problemi che spesso erano più grandi di noi.
Il clown diventa il centro di un ingranaggio, un centro intorno al quale ruotano bisogni, necessità e organizzazioni. Perché il Clown, che entra nelle tende, che parla direttamente con le persone, che diventa confidente e valvola di sfogo diventa fondamentale, tramite il suo lavoro, tramite la sua mediazione mette in contatto gli abitanti (forzati) del campo con chi il campo lo gestisce e lo coordina. In questo modo crea una comunità.
Proprio in questo senso credo nel clown sociale creatore di comunità. Il Clown nella situazione del campo fa uscire le persone, che troppo spesso provano imbarazzo e vergogna nel chiedere aiuto, nel farsi vedere deboli, il clown permette loro di incontrarsi, di condividere il dolore e, in questo modo, di alleggerire il peso che si portano sulle spalle.
Questi sei giorni hanno avuto un denominatore comune: le persone.
Persone che un terremoto ha portato forzatamente in un campo,dentro una tenda spesso troppo piccola per otto persone, in una realtà precaria, scomoda e soprattutto non familiare. Persone incontrate, conosciute con le quali si è riso scherzato, pianto e abbracciato.
Rosa che sapendo del bottone del camice del Dottor Bif ha ribaltato la tenda per trovarne uno e glielo ha riattaccato e con quella scusa gli ha rammendato mezzo camice, e poi voleva che le portassimo tutto quello che avevamo di bucato.
Sara, una ragazza di neanche vent’anni, che la notte del terremoto, al buio, con il terrore dentro, la prima e l’unica cosa che ha preso è stato il calendario fatto per lei dal fidanzato, un calendario tutto pieno di cuori, di foto da innamorati e frasi d’amore. Ed è stato un modo buffo per scherzare sulle sue priorità (diciamo che un calendario proprio non è fondamentale, ma quello era un calendario d’Amore!) e farle raccontare di quella notte.
Luciana vive in una tenda con quattro simpatici vecchietti, tutti parenti e tutti da accudire. Quando passiamo da lei è sempre indaffarata e piena di cose da fare, ma appena ci vede non disdegna mi un abbraccio. Le serve quello, poco altro, due parole al massimo. In attesa dell’abbraccio successivo.
Romolo, un simpatico nonnetto, amante del vino e delle donne (si era preso in simpatia la cara Prillo, erano entrati in sintonia in fatto di vino, infatti c’è voluto poco a farle cambiare nome da Prillo e Brillo e per gli amici ‘Briachella!). Con lui facevamo sempre un sacco di belle chiacchiere, lui avrebbe da spiegare e insegnare tanto a tutti noi.
Andrea (che mi ha rapito il cuore!), un ragazzo di sedici anni con un forte ritardo, che ama ballare e ama la musica di Radio Ciao, ma ancora non è riuscito a procurarsi una radio e soprattutto io sono andata via senza riuscire a ballare con lui (principalmente a causa di una sua grande sfiducia nelle doti musicali degli scout, sfiducia fondatissima mi sa!!)
Sarebbero tanti ancora i nomi che dovrei scrivere e di cui dovrei raccontare, spiegare come non si riusciva ad arrivare a pranzo con lo stomaco vuoto perché facendo il giro tende tutti ti offrivano da mangiare e da bere. Io ho pure rimediato il corredo di nozze fatto a mano e gli orli degli asciugamani fatti con l’uncinetto!
È stato difficile lasciare tutte queste persone, pezzettini di cuore, ma mi sono resa conto che i cinque giorni del turno sono funzionali anche a questo, rimanere di più sarebbe stato rischioso per noi come persone e non come Clown, la Dottoressa Petronilla sarebbe rimasta là ancora!
Nei Campi quello che più manca alle persone è il Fare, il sentirsi utili per gli altri, il tenersi occupati, e invece i volontari pensano a tutto, dal mattino alla sera la macchina del campo si muove perfettamente e chi abita il campo aspetta il tempo che scorra. È logorante.
Non si potrebbe pensare che a gestire il campo fosse chi realmente lo abita ormai da un mese?
Un volontario scout un giorno mi ha chiesto come poteva fare a lasciare le persone che aveva conosciuto del campo senza far sentire la sua mancanza, senza farle sentire abbandonate. Perché la sensazione che si ha ogni volta che c’è il cambio turno dei volontari è proprio di abbandono.
Quello che facciamo noi clown credo sia esemplare, il fatto di fare un passaggio di consegne reale, presentando alle persone i clown che incontreranno nei giorni successivi e fondamentale, le persone non si sentono abbandonate perché sanno che l’indomani un clown dottore ci sarà ugualmente, anche se diverso.
Dopo un mese di vita nei campi la realtà è cambiata, credo che anche noi dovremo pensare alla nostra missione, pensare a come la nostra modalità di intervento possa modificarsi per adeguarsi ai cambiamenti avvenuti.
da Ridere per Vivere Emilia Romagna
Eleonora-Dottoressa Petronilla
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