
Per secoli abbiamo fatto di tutto pur di non vivere d’amore. Abbiamo lasciato questa scelta ai santi e ai folli, ai poeti e agli utopisti proprio per arrivare a dire – consolandoci – che non è un tema così importante per comuni cittadini. Prima deve venire il lavoro, il denaro, il potere, la guerra e la pace, l’economia e la politica, la famiglia e lo stato, l’individuo e la collettività.
Abbiamo pensato che perfino la felicità potesse essere vissuta senza amore.
Così si progettano e costruiscono esistenze appoggiate sulle palafitte fragili dell’analfabetismo affettivo.
Ci siamo dimenticati di insegnare ai nostri figli a comunicare – nel senso empatico del termine – convinti che sarebbe bastata l’invasione tecnologica e telematica a garantire a ognuno di non essere più solo.
Abbiamo parlato per decenni di alienazione, poi l’abbiamo organizzata e diffusa in ogni posto di lavoro e in molte case, e ora ci inorgogliamo all’idea che immensi territori orientali siano il teatro di una gigantesca transizione: dalla lentezza dei campi alla follia delle fabbriche di grattacieli. Siamo riusciti ad affogare nel fare, il pragmatismo si apprezza come icona dell’efficienza e della subalternità globale: così non pensiamo ad altro se non alla produzione di cose, mai d’idee.
Il sorriso come apertura, come amore, come rivoluzione, come grimaldello capace di sovvertire un equilibrio anestetizzato di menti e libertà. La risata come esercizio spirituale, come ginnastica di amor proprio, fucina di dignità. La risata come allegoria del tempo necessario ad accorgerci che stiamo vivendo, non sopravvivendo. Il sorriso come metafora irrinunciabile del bello e del puro.
Il sorriso come occasione per accorgersi dell’altro, come crescita, riappropiazione della coscienza di sé, del corpo, dei sensi, della libertà di pensare e sentire.
Cosa c’è di più di più strategico dell’amore?
Come potrebbe un politico pretendere di guidare una nazione se non sa amare?
Come potrebbe un industriale pretendere di capitanare mille dipendenti se non conosce il senso della passione dei sentimenti?
Eppure la storia è lastricata di leader cinici e di manager emotivamente irrisolti, così come la maggioranza di noi. Ecco perché, di fronte alla più profonda crisi dell’occidente, non sappiamo far altro che replicare le scelte del passato: facciamo crescere la concorrenzialità, la violenza, l’indifferenza per l’altro, la più cinica delle ambizioni. Sappiamo distruggere per poi ricostruire, uccidere per poi perdonare, tradire per poi chiedere scusa.
E se la rivoluzione partisse dall’homo cupidus (ovvero l’uomo emotivo) non più da quello laborisus né da quello "tecnologicus" ? e se fosse il tempo di prendere e dare delle lezioni di sorriso e d'amore? Se il vero frutto di un’acquisita modernità corrispondesse con il concedersi il tempo, la voglia, il coraggio, il lusso d’innamorarsi e di sorridere?
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